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Don Cristofaro,

il prete rosso

 

di Vincenzo Pitaro

 

Don Giuseppe Cristofaro, 33 anni da compiere il prossimo 5 novem­bre, da otto sacerdote presso la parrocchia SS. Annunziata di Acri, non è un prete come gli altri! Ha iniziato la sua vita pastorale, abolendo oboli e messe pagate, predicando e sostenendo la chiesa povera per i poveri, i giovani, i disoccupati, ed è chiaro che odi e amori si sono attivati attorno a lui. Lo «scan­dalo» scoppia nel maggio del 1979, quando don Giuseppe Cristofaro aderisce al Pci.

«Ufficialmente - dice - non ho avuto ritorsioni dalla Dc locale, ma più volte sono stato invitato a lasciare la parrocchia, cosa che ho sempre rifiutato, sostenendo la validità di questo tipo di presenza pastorale».

Don Cristofaro, perché ha scelto di abbracciare la missione sacerdotale?

«La risposta a queste genere di domanda, che spesso mi viene rivolta, diventa complessa e difficile a causa soprattutto dell’ambiguità del linguaggio incapace spesso di dar carne a gesti e idee. Semplificando, risponderei che ho scelto, da cre­dente, di essere sacerdote per servire, nella chiesa e con la chiesa, l’uomo di tutti i giorni, contribuire a liberarlo dal peso di morte che grava sulle sue spalle e farlo crescere in umanità. Ciò mi ha spinto ad un coinvolgimento totale e radicale in questo servizio».

Quali sono state, poi, le ragioni che l’hanno indotta ad assumere atteggiamenti ideologici, politici e filosofici non tradizionali?

«Nei fatti che riguardano l’uomo, le sue alienazioni e le sue speranze il cristiano deve portare lo specifico della sua fede, la novità della Resurrezione e il peso della croce. Tutto ciò carica il cristiano di una responsabilità enorme: stare dalla parte dell’uomo oppresso e alienato, testimoniandogli il volume della sua carità e della sua speranza. Al di là di questo, il cristiano è simile agli altri uomini, assieme ai quali cerca, inventa, costruisce progetti laici e aconfesionali di libera­zione. Così le analisi e le proposte politiche non sono “deriva­ti” meccanici o diretti dalla fede, ma sono prodotto di una fatica laica. Fuori da questa intuizione fondamentale, la Chiesa rischia di ripetere errori di integrismo e di intolleranza che nella storia l’hanno spesso identificata con un ruolo ideologica­mente oppressivo e “di parte” e scaricata dai processi concreti di liberazione e dalle lotte dei poveri. La fede, cioè,  non è un “luogo ideologico”, ma una esperienza teologica che si affianca e si incarna nelle fatiche rivoluzionarie. E’ la verifica di un’ac­quisizione importante: cristiani nella politica e non una politi­ca cristiana. Ciò evidentemente impone una rivoluzione copernica­na all’interno della Chiesa disarmata e povera di atteggiamenti ideologici, politici e filosofici, ma capace di servire l’uomo “dentro” i progetti laici della politica».

Che rapporti ci sono, secondo lei, tra marxismo e cristianesimo?

«L’errore di fondo che si riscontra ogni qualvolta si parla del rapporto tra marxismo e cristianesimo sta nel fatto che questo rapporto viene posto in termini ideologici e perciò riduttivi. Per comprendere meglio è necessario partire da una verità di fondo: il cristianesimo è una proposta e una prassi di fede che non può essere rinchiusa in questa o quella cultura, in questo o quel progetto politico, pur avendo necessità di essere sempre “dentro” ogni progetto politico e culturale; d’altronde il marxi­smo è, per usare una espressione di Enrico Berlinguer, una “lezione di storia”, uno strumento di analisi e di trasformazione della società, non una religione o una “fede”, per cui non ha bisogno né di dogmi né di chiese. Se il rapporto è letto in questi termini, il cristiano non può non porsi una domanda: fino a che punto, usando questa “lezione” fornita dalla riflessione marxista, si può contribuire  a costruire una società più giusta e a misura d’uomo? E non solo! Altre domande si impongono alla coscienza del credente. Fino a che punto la fede non è rimasta imbrigliata dentro gli schemi ideologici della società capitali­stica, diventandone puntello? Fino a quando può tacere sulle morti quotidiane prodotte da uno sviluppo distorto e disumano? Su questa strada, il credente si incontra col mondo operaio, con gli oppressi, con i loro progetti politici e le loro organizzazioni: il socialismo verso il quale si sono incamminati non può non coinvolgere totalmente il credente fino a trovarvisi “dentro”. Ciò evidentemente comporta un dato di fondo da conquistare: che la chiesa abbandoni la comoda neutralità, la cultura “interclas­sista” (e perciò necessariamente “di parte”) che copre una ideo­logia di falsa pace e sviluppo sociale, e ridiventi prassi libe­rante dei poveri di questo mondo».

In che misura la sinistra italiana garantisce le libertà religio­se dei credenti?

«Una caratteristica importante della sinistra italiana è la sua articolazione politica e progettuale al suo interno e l’aver fatto del marxismo una lezione di storia da “usare”, partendo dalle situazioni concrete e proprie del mondo occidentale e del mondo italiano in particolare. In questo contesto la sinistra italiana ha dovuto fare i conti con un mondo cattolico anch’esso articolato e diversificato che andava riscoprendo, dopo il Vati­cano II, la via della profezia e la gioia dell’età matura. Con esso è venuta chiarendo i termini di un rapporto difficile ma costruttivo nell’affermazione costante della laicità della poli­tica e della laicità della presenza storica del credente. Per cui si è messo in moto un doppio processo di crescita: da una parte la sinistra, sempre meno ideologica e dogmatica, ha affermato la dimensione laica della progettualità politica; dall’altra la Chiesa ha tentato di liberarsi dall’integralismo confessionale e dal potere democristiano nella misura in cui ha riscoperto la via della profezia e ha sentito il grido degli oppressi. E’ un doppio processo di crescita ormai irreversibile, ma che esige una spinta costante di base che forzi il salto di qualità ormai necessario. Non è una scoperta il fatto che certo mondo cattolico interpreti la difesa della libertà religiosa nei confronti di un “periodo” comunista come pretesa di conservazione di privilegi e di potenza (il concordato, la scuola di religione, le scuole e le assistenze cattoliche, ecc.). E’ una mentalità, questa, che mise già in conflitto lo stato liberale con la Chiesa di Roma. Oggi, come allora, lo scontro non è tra fede che libera e progetto sociali­sta, ma tra una Chiesa di potenza e il mondo laico».

Cosa direbbe ai molti credenti che considerano la Democrazia Cristiana come unico e solo garante della cristianità?

«E’ una affermazione arbitraria, avventata e mistificante, non più proponibile se non si vuole portare offesa alla serietà della fede e alla storia. Innanzi tutto nessun partito può rappresenta­re i cristiani, né può garantire la loro presenza politica, perché la fede non partorisce partiti politici o progetti cultu­rali. Il problema che investe e lacera la coscienza del cristiano è invece un altro: può tacere, peggio ancora appoggiare o benedi­re, il partito degli scandali, dello sfascio, degli interessi costituiti; può ancora ingoiare un partito senza progetto politi­co, senza  respiro di futuro, capace solo di conservare rapporti ingiusti e violenti? Sono quelli che hanno sostenuto e sostengono la Dc come partito cristiano che dovranno rendere conto alla storia, alla classe operaia, alle donne e ai giovani. Personal­mente ho già scelto la classe operaia, il suo linguaggio e i suoi partiti. Ho scelto di difendere l’umanità tumefatta e violentata!»

 

(Vincenzo Pitaro su Calabria Oggi, quindicinale politico-cultura­le, n. 3 del 23 aprile 1981)

 

 

 

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