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Don Natale Bianchi,

il «prete scomodo»

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

di Vincenzo Pitaro

 

La tormentata vicenda di don Natale Bianchi, il «prete scomodo», il «dom Franzoni del Sud», come molti suoi concittadini simpati­camente lo chiamano, viene alla ribalta della cronaca con la fatidica data del 26 aprile 1975, allorquando il vescovo di Gerace gli fa recapitare una lettera ingiungendogli di lasciare la comunità San Rocco di Gioiosa Jonica, indi ritirarsi a vita conventuale.

Invero nella missiva si intimava ad don Bianchi di lasciare entro una settimana la parrocchia concedendogli un periodo di tempo «per un approfondimento di sicura dottrina teologica e per una riflessione spirituale recandosi in una località o casa sacerdo­tale idonea».

L’antifona era chiara: si preconizzava, in quella lettera, una sospensione dall’attività sacerdotale nonché l’allontanamento da Gioiosa del prete scomodo.

Questo provvedimento rappresenta il primo atto di una vera e propria campagna intimidatoria, condotta dall’ala più faziosa e conservatrice della Chiesa cattolica e dalla Democrazia Cristiana locale, entrambe intenzionate a non concedere nulla in nome dei principi di libertà e di progresso, nonché mantenere vivo e vegeto quel potere politico ed economico per cui hanno imperato e dominato incontrastate per circa sei lustri.

I primi strali del «potere costituito» incominciano a far centro da quando don Natale Bianchi, nel 1974, si schiera attivamente per il No in occasione del referendum del 12 maggio, e dà vita ad una comunità cristiana di base nella città di Gioiosa Jonica, collegandosi con gli altri gruppi del dissenso cattolico.

A questo punto interviene il vescovo di Locri, mons. Francesco Tortora, il quale cerca il tutto per tutto di stroncare l’espe­rienza di fede della Comunità, dapprima con l’ingiunzione di cui sopra, poi privandolo del posto di lavoro, cioè dell’insegnamento della religione con notifica 1° ottobre 1975.

A questi fatti fanno riscontro una lunga sfilza di altri atti provocatori perpetrati ai danni di don Bianchi, tra cui spiccano maggiormente: «Lasciare entro il 5 maggio 1975 la parrocchia di San Rocco», sospensione “a divinis” con lettera del 4 settembre 1975, e, come se non bastasse, una citazione presso il tribunale civile di Locri per «possesso abusivo della Chiesa e relativi registri».

Ma cerchiamo di conoscere più da vicino la figura di don Natale Bianchi, attraverso un profilo autobiografico e cercando di avvalerci della sua diretta testimonianza.

«Nell’ultimo anno delle elementari», ci racconta il nostro, «era sorto in me il desiderio di diventare missionario. Tale desiderio era stato suscitato da alcuni incontri con dei missionari del P.I.M.E. (Pontificio Istituto Missioni Estere) dove essi narrava­no la loro vita avventurosa per annunciare il vangelo e compiere opere di bene, come: curare i malati, costruire scuole, aiutare i poveri, ecc.».

Il suo vecchio parroco, quando seppe del suo ideale di vita, tentò di indirizzarlo verso il seminario diocesano confortandolo che, una volta diventato prete, avrebbe potuto aiutare la madre.

«Ma io non ne volli sapere di diventare uno dei tanti parroci che operano in Italia, perché la figura del prete mi sembrava troppo scialba; io volevo andare in terre lontane, tra quelli che consi­deravo dei veri eroi, che rischiavano la vita per aiutare gli altri».

Il suo confessore, il salesiano Bandiera, terminate le scuole elementari, lo condusse ad Ivrea, dove c’era un Istituto missio­nario salesiano e là frequentò i cinque anni di ginnasio. Finito il Liceo, chiese con quattro altri suoi compagni di partire per le missioni; e poiché dalla Thailandia giungevano pressanti richieste di invio di personale, vennero scelti per quella desti­nazione.

Fu allora, il 30 novembre 1954, che don Natale, ancora ventenne, partì da Genova e dopo ventuno giorni di navigazione fu sbarcato a Singapore. Da qui il 25 dicembre, giorno di Natale, dopo due lunghi giorni di treno approdava ad Hua-Hin, la sua prima dimora in Thailandia.

Fu nell’incontro non ideale ma reale, con la missione salesiana della Thailandia che si rese conto «che le opere salesiane erano più che altro uno strumento per succhiare soldi alla povera gente ed imporre, più che il cristianesimo, un vecchio modello di vita europeo».

Di fronte ad alcune contestazioni e critiche avanzate da alcuni compagni di missione di don Bianchi, la risposta fu che «senza soldi non si poteva fare niente e la repressione che seguì fu un avvertimento a tenere chiuso il becco. Pensavamo che almeno si potevano chiarire le cose durante le visite di controllo di qualche superiore della congregazione salesiana».

«Ingenui che eravamo! I superiori», continua don Bianchi, «rive­lavano le nostre confidenze ai superiori locali e giù altre repressioni. Capimmo la lezione: Lupo non mangia Lupo, ed impa­rammo il modo con cui bisognava comportarsi con i superiori».

Scontata la prima triste esperienza tailandese, fu trasferito nella vicina India dove ad Hassan iniziò gli studi di teologia che, per lo scoppio delle rivalità tra cinesi ed indiani, dovette interrompere ben presto e portarli a termine in Italia. Tornato in Italia, chiese a mons. Michele Arduino, vescovo per diversi anni in Cina e missionario pure lui, di lavorare come sacerdote nella diocesi di Locri.

I suoi desideri furono ben presto esauditi; difatti venne ordina­to prete il 2 giugno 1968.

Nell’agosto del 1973 iniziava una nuova esperienza nella vita di don Natale Bianchi. Gli era stata affidata, a norma del diritto canonico, la cura della parrocchia di San Rocco in Gioiosa Joni­ca, in qualità di vicario economo; una qualifica che comporta «tutta la responsabilità di chi ha il titolo di parroco», ma anche «maggiore libertà o arbitrio del vescovo di togliere l’in­carico».

Fu durante questo periodo di maggiore contatto con i problemi reali e penosi della povera gente, la gente del Sud, da secoli abbandonata al triste gioco del suo destino, che avvenne quel che in un certo senso si può chiamare la sua conversione.

«Essa è un cambiamento radicale di guardare la vita», ai rapporti sociali, ai problemi che assillano la gente comune; è un rivolu­zionamento nuovo, anche se, data l’apparente staticità del siste­ma in cui si vive, lascia trasparire ben poco all’esterno. Questa rivoluzione personale che tende per sua peculiarità a rapportarsi a tutta la società, non entra in contraddizione con il messaggio evangelico anzi lo libera dalle mistificazioni storiche e tende a realizzare tutte le virtualità.

Questa conversione è stato il frutto di un diuturno contatto con lavoratori alla giornata, con contadini, con la gente priva del minimo indispensabile per il proprio sostentamento. Costoro lo hanno aiutato con «la loro sofferta vita, con il loro semplice linguaggio», a cogliere la sua collocazione che «segna tutta la società e le sue complesse relazioni».

Fu con queste idee e questi profondi convincimenti che nel 1974 fondò una comunità di base il cui precipuo compito era di instal­lare il modo nuovo di vivere e condividere il vangelo, promuoven­do una serie di incontri-dibattiti con cittadini democratici e soprattutto con operai e studenti.

Quel che ne conseguì da quel 1974, è già noto in quanto ce ne siamo occupati sufficientemente nel corso di questo servizio.

A tutt’oggi, a nulla hanno approdato i vari tentativi di repres­sione contro quella comunità e contro le iniziative di don Bian­chi, il quale fermo nella sua fedeltà a Gesù ed ai postulati evangelici è deciso più che mai a proseguire nelle esperienze della Comunità ed a sviluppare quelle idee che ivi erano incomin­ciate a germogliare.

Infatti la Comunità prese presentemente tiene due riunioni alla settimana: martedì e venerdì pomeriggio. Attualmente la chiesa è dichiarata occupata con la scritta: «La chiesa è del popolo».

 

(Vincenzo Pitaro sul quotidiano Avanti! del 14 luglio 1977, «Vescovo e Dc dichiarano guerra al dom Franzoni del Sud»)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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