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Intervista a Vittorio Gassman

 

di Vincenzo Pitaro

pagina Spettacoli, dell’8 ottobre 1982

 

 

Incontriamo Vittorio Gassman in Calabria in occasione della cerimonia di premiazione del «Chiaravalle 1992», settore narrativa, a lui assegnato per il libro «Un grande avvenire dietro le spalle» edito da Longanesi.

 

- Gassman, dal teatro un ritorno al cinema. Come mai?

 

«È normale. Fin dall’inizio della carriera ho trovato abbastanza naturale, avendo la possibilità di alternare le due cose, di farlo. Direi che sono come due rami che partono dalla stessa radice; sono due professioni che hanno punti in comune evidenti, e poi ognuna ha il suo linguaggio specifico. In fondo l’attore, per definizione, è qualcuno che è disponibile per il mutamento».

 

- Non pensa di disorientare un po’ il pubblico cambiando, spesso radicalmente, genere di lavoro?

 

«Questo può avvenire; naturalmente ci sono, come in tutti i campi, scelte giuste, scelte sbagliate. Non credo che si possa generalizzare, non credo, soprattutto, che non si possa ricono­scere legittimo il frequentare almeno questi due campi fondamen­tali dello spettacolo».

 

- «Il conte Tacchia»: cos’è questo nuovo film che sta girando per la regia di Sergio Corbucci?

 

«È un film che va un po’ nel filone (dato che il cinema italiano spesso va per filone, forse anche troppo spesso, se vogliamo) del Marchese del Grillo. E’ una storia popolaresca che si rifà ad un episodio, ad una piccola leggenda con basi reali su un personag­gio curioso, che ha vissuto a Roma agli inizi del secolo. Comun­que è un film in cui faccio una partecipazione che ho già finito, ho girato due settimane... Il mio personaggio è un vecchio prin­cipe romano un po’ particolare. Un personaggio divertente in un film grottesco tutto sommato!».

 

- Dopo le due esperienze di attore-regista, pensa che possa nascere una nuova sua immagine grazie ai riconoscimenti per la sua opera letteraria? Un Gassman scrittore?

 

«Beh, su questo io non posso mettere le mani... Credo, per esem­pio, che c’è in molti, un’attitudine precostituita e un po’ moralistica di disdegno dei premi. Si può dire che di premi, probabilmente, c’è anche una certa inflazione in tutti i campi, in Italia. Anche qui, però, non si può generalizzare: ci sono i premi manifestamente e scopertamente pretestuali, o turistici, e ci sono premi, invece, che rimontano ad una tradizione, a una vera invenzione culturale e, quindi, i due discorsi sono assolu­tamente distinti. Penso (e del resto non solo il solo a pensarlo, perché il premio si è qualificato nella sua lunga continuità) che questo premio di Chiaravalle sia uno dei premi che rientrano nella seconda categoria. Mi pare, anzi, che sia fisionomizzato proprio da un tentativo chiaro, da una volontà chiara, di non farlo diventare un premio turistico, nel senso deteriore».

 

- Bene! facciamo nuovamente un salto al teatro, al cinema. La sua più grande vittoria, in questi campi, finora quale è stata?

 

«Mah, sa, io sono arrivato ad un’epoca in cui si cerca di evitare i bilanci, anche se ho appena finito di scrivere una biografia che, apparentemente, dovrebbe essere un bilancio. Non lo è! Cerco di vivere più proiettato in quello che faccio e in quello che farò, che non nella valutazione di quello che ho fatto. Comunque esco da un anno, devo dire, per non fare il finto ipocrita, che è stato molto intenso, che mi ha dato molte gratificazioni. Una delle attività che mi ha dato queste soddisfazioni è, indubbia­mente, la scrittura di questo libro; poi la continuazione della scuola teatrale, della Bottega teatrale a Firenze, che continua lentamente (com’è tipico dell’attività propedeutica, didattica) la sua attività; e poi l’Otello che è stato veramente un grande successo teatrale e che spero di raddoppiare il prossimo anno con il Macbeth scespiriano, che dovrebbe debuttare l’estate prossima al Maggio musicale fiorentino».

 

- Tuttavia rimpiange qualcosa? Nella vita ha mancato qualche grossa occasione?

 

«Rimpianti non ne ho, nel senso che rifarei volentieri tutta la strada, compresi gli errori che ho sempre dichiarato e per fortu­na ho fatto. Perché credo che un attore, o un artista in genera­le, che non abbia compiuto errori nella sua carriera, sia degno di sospetto, perché vuol dire, forse, che ha cercato poco... non si possono azzeccare tutti i buchi! Io ho avuto anche alcuni fiaschi clamorosi: in teatro posso citare, non so, il fiasco abbastanza storico di Un marziano a Roma di Ennio Flaiano, che, però, rimane uno dei ricordi più belli che ho! Perché l’ho fatto in buona fede, perché credevo nel testo, eccetera... Probabilmen­te avrò fatto degli errori, forse il testo era anche in anticipo sui tempi, ma è un errore, come dire, costruttivo! E un buon seme che in qualche modo, poi, o a me o magari ad altri, può dare dei frutti».

 

- Un grande avvenire dietro le spalle» (lei poc’anzi ne ha già accennato) è il titolo del suo libro. Gassman, ha idea di quale sarà il suo avvenire? Crede nel futuro?

 

«Il titolo contiene, com’è lo stile del libro, un elemento sco­pertamente ironico. Si può anche ribaltare, si potrebbe dire “un grande passato di fronte a sé”, perché appunto non voleva essere un bilancio. Ho cercato di mettermi, sinceramente, di fronte alla mia esperienza, con la coscienza di non raccontare la vita di Napoleone; e credo che la maggior dote del libro che mi è stata riconosciuta sia questo approccio sincero... Una mancanza di schemi precostituiti e uno stile che si è confermato, naturalmen­te, secondo quella che è la mia natura, con tutti i suoi balzi, gli errori... Se c’è un personaggio che esce con piccole o grandi cicatrici da questo libro, in cui parlo di tanta gente, forse sono io stesso».

 

- Gassman, cosa significa esattamente, secondo lei, invecchiare?

 

«Questa è un’altra generalità di cui, fra l’altro, per scaraman­zia, vorrei occuparmi il meno possibile! So di vivere una stagio­ne che mi piace molto; vorrei che si fermasse, perché non c’è dubbio che è l’età in cui si comincia anche a vedere la parte in ombra del declivio, come diceva Otello; non è casuale che io l’altro anno abbia impostato un Otello soprattutto sul fatto che si tratta di un uomo di grande esperienza, di piena maturità, e, nello stesso tempo, con questo presagio di ciò che è al di là e che, confesso francamente, mi fa anche paura ogni tanto, mi sgo­menta, certo...»

 

- La morte quindi la spaventa?

 

«La morte, proprio una cosa che... Io non ho la fortuna di avere idee molto chiare su quello che succede dopo. Non posso dire di essere totalmente scevro di sospetti, di dubbi; non sono un ateo e, nello stesso tempo, non sono un credente vero! E allora la partita mi pare che sia il caso di giocarla qui! Credo che, almeno da un punto di vista etico, questo sia legittimo».

 

- Cambiamo argomento. Come fa lei ad occupare da tanti anni un posto predominante nel mondo del cinema, del teatro, della Tv, senza mai prestarsi (che possiamo dire?) a scandali, giochini pubblicitari e cose del genere?

 

«Mi è capitato anche di questo, perché è chiaro che la ragnatela dell’informazione, del mestiere stesso, ogni tanto ti porta in piccole trappole. Ho fatto anch’io i miei piccoli o grossi sba­gli... Onestamente, però, credo che si possa intravedere una certa coerenza nel mio lavoro, soprattutto teatrale, nelle mie scelte, perché in fondo continuo a fare da quarant’anni quello che ho fatto fin dall’inizio».

 

- Se Gassman non avesse fatto l’attore, quale «mestiere» avrebbe tentato?

 

«Io ero avviato a diventare avvocato, cioè, inizialmente dovevo diventare ingegnere perché era un po’ la tradizione della mia famiglia. Poi mi sono iscritto a giurisprudenza, ma l’intenzione di diventare avvocato non era totale; più che altro volevo pren­dere ancora tempo per decidere. Alla fine, un po’ casualmente, sono entrato in una scuola drammatica e piano piano mi sono accorto che era, forse, l’unica strada che potevo percorrere».

 

- Attore, regista, ed ora anche scrittore; ma soprattutto uomo e padre di famiglia. Dov’è il vero Vittorio Gassman?

 

«Anche qui io mi divincolo per cercare di non stringermi in definizioni. Parlavo ieri con l’amico avv. Francesco Squillace (presidente del comitato organizzatore dei premi Chiaravalle - ndr) dei figli. Essi rimangono forse l’incognita, la ics più misteriosa e più affascinante del vacuo esistenziale di un uomo. Sono molto scomodi... Io so di non essere un padre ideale e temo anche... cioè spero che il padre ideale nel senso astratto non esista. Ma è certo che, dovendo fare uno di quei famosi giochi, giochi di sincerità, che ogni tanto s’incrociano fra amici nei salotti, forse il tema dei figli vada messo proprio al primo posto di questo grosso segreto che è la vita tutta intera».

 

(Vincenzo Pitaro su Gazzetta del Sud, pagina Spettacoli, dell’8 ottobre 1982)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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