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I segreti della parola

nella lingua italiana

 

di Vincenzo Pitaro

 

La docente di un liceo catanzarese è indignata contro quanti insegnano male la pronuncia e contro i lessicografi, che non rispettano gli accenti (grave sulle sillabe aperte e acuto sulle chiuse), e ci fornisce un repertorio di 43 vocaboli «orrendamente pronunciati» (ma ben 24 li accenta erratamente) spiegandoci, col significato degli stessi, le ragioni dell’errore di pronuncia.

Ma, gentile professoressa, non se la prenda coi lessicografi. Non sappiamo quale vocabolario lei usi. Quelli più noti recano tutti gli accenti (esatti, naturalmente). Tuttavia, soffermiamoci su due soli termini, dei quali lei ci offre pure il «suo» significa­to (che concordiamo solo in parte), perché appartengono al «suo» gergo, quello scolastico, e perché la loro etimologia sorprenderà qualche lettore: cómpito e compíto. Sono entrambi composti col prefisso con-, il latino cum (perciò la «o» di com- non può essere pronunciata altrimenti che chiusa). La seconda componente, -pito, è diversa nei due termini: in cómpito deriva da putare, in compíto da plere; il latino computàre significa «contare», il latino complère «riempire».

Cómpito «lavoro assegnato, incarico, ufficio, mansione» (quello scolastico in alcune regioni italiane è detto «assegno») è so­stantivo della stessa famiglia di compitàre, di compitazione, di computare, «fare il computo» (cioè il conto o la conta), di contare, conteggiare, contante (denaro), contabile, contabilità, contatore, e dei composti contachilometri, contagocce, ecc. che usiamo ogni giorno.

Compíto deriva, assieme a compiúto, da cómpiere o compíre. Di cómpiere l’indicativo presente è cómpio; di compíre è compísco; il passato remoto di cómpiere è compièi, di compíre è compíi; da cómpiere abbiamo anche cómpiuto, cómpiendo, mentre le altre forme sono di compíre, ma gli scrittori ormai le usano senza curarsi della distinzione di significato implicita nel verbo da cui derivano. Compíto significa «finito, interamente realizzato, condotto a termine».

Malgrado la diversa etimologia, cómpiere e compíre in più sensi, dunque, vengono usati promiscuamente; in certi sensi tuttavia la distinzione viene mantenuta. Di cómpito e compíto (l’uno sostan­tivo, l’altro participio divenuto aggettivo), ricordiamo le espressioni «grato o ingrato compito», «avere un difficile compi­to» (come obbligo quotidiano), «mancare al compito» (non compiere il dovuto incarico), «lavorare a compito (misuratamente), e, par­lando di qualità morali, diciamo che «quella è una persona compíta o compitissima», che «siamo stati accolti in una casa con compíta festosità» (riferimento alla buona educazione). Nota qualche lessicografo che compíto è una forma letteraria, mentre oggi si tende a preferire compiuto; così l’Oriani parlava di «anni compíti», il Cassola parla di «anni compiuti». Un lavoro finito è «opera compiuta»; il D’Annunzio parla di «mistero dei destini compiuti», il Montale di «attesa ch’è gioia più compíta». Il Focazzaro deprecava «il fatto compiuto, il Croce amava «l’espressione in sé compiuta», senza bisogno di spiegazioni verbose. Il Leopardi cercava «compiuta bontà» nell’opera lettera­ria. Il Tommaseo ammirava nella madre la «cristiana compiuta».

Chi esamini nel loro contesto queste frasi, osserva che le idee di pienezza, di compiutezza e quelle di conto, calcolo, esattez­za, riflessione, sono presenti nelle parole qui discusse. Il senso originario d’una parola raramente si perde del tutto nei termini derivati, sebbene l’uso in senso traslato d’una parola ne sposti il valore. Ce ne offre l’esempio il participio passato del latino complère, «riempire, colmare», completum, che dall’idea di mettere qualcosa dentro a un recipiente fino a completarne la capienza, è passato attraverso all’idea astratta di «raggiungi­mento d’un desiderio», d’una meta morale, e un «completo» oggi è un uomo «provvisto di tutte le qualità intellettuali, culturali, umani», che fanno di lui una persona perfetta. Dal participio latino la voce è divenuta aggettivo italiano ed anche, con un calco sul francese complet, sostantivo: l’insieme di giacca, pantaloni e panciotto» (già nel ‘600 a Parigi si diceva così). E quell’aggiunta con la quale si completa ciò che manca alla com­pletezza di qualcosa è il complemento, il completamento necessa­rio o voluto per ottenere l’effetto desiderato; e i grammatici se ne sono serviti per designare quella parte della proposizione con cui si completa il senso delle parti essenziali della frase.

E se vogliamo veramente compiere un nostro atto di omaggio, di rispetto, di ammirazione verso una persona che se lo merita, o anche semplicemente salutarla, facciamogli un complimento (come gli spagnoli, dai quali abbiamo accattato la parola). Ma che siano sinceri, non ironici, i complimenti. Il Tommaseo non sapeva fare un complimento alle signore, e non ne faceva a nessuno, perché «per lo più», a suo parere, «non ha senso di lode, e dice il contrario di sincerità», e il Carducci gli faceva eco: «Gl’italiani, fini estimatori, nel resto, del peso delle belle parole, ed increduli, se altri mai, ai complimenti, come quelli che li adoperano troppo». E quel personaggio del Panzini, che «non faceva complimenti, ma trattava le donne col frustino»? Ma è possibile per un italiano parlare a una donna «senza complimenti»? (Svevo), o possono i diplomatici iniziare e finire una trattativa omettendo gli «scambievoli complimenti»?

La loro opera è proprio quella descritta dal secentista Traiano Boccalini: «tutta gentilezza, e tutta si risolve in complimenti, ma chi con l’occhial politico sa penetrar l’intimo del cuore, la vede tutta superbia, tutta avarizia e crudeltà»? Forse non sem­pre, sebbene «fare complimenti» sia parte del loro compito, anche quando «non c’è tempo per fare complimenti»: e solo «chi dice pane al pane è incapace di fare complimenti», di rivolgere «parole che non siano di puro complimento» (Paolo Sarpi).

Ma talvolta completare un discorso, una cerimonia con un compli­mento è proprio necessario, è compito della persona compíta (e se in questa nostra chiusa ne abbiamo fatto un gioco di parole, perdonateci).

 

 

(Vincenzo Pitaro su Parallelo 38, anno XXVII, n° 6 - Giugno 1996)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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