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Mastro Turi e lo zio canadese di Vincenzo Pitaro Quella
mattina non s’era udito il dolce tintinnio, proveniente dalla forgia di
mastro Turi. Tutto
il vicinato era ormai abituato a quel suono, tanto che se non lo sentiva per
un giorno ne faceva quasi una malattia. Quel
tin-tin mattutino era ormai divenuto familiare e puntuale per tutti. Quando
mastro Turi batteva il primo ferro caldo sull’incudine, specialmente nel
periodo invernale, significava ch’erano già le sette e che bisognava alzarsi
dal letto. Cosa che lui era solito fare con le prime luci dell’alba,
bruciando sul tempo persino il gallo del suo pollaio che, quasi per dispetto,
non cantava mai alla stessa ora. Quella
mattina, dunque, qualcosa era accaduto. «E’
strano», bisbigliò l’avvocato Peppino Salvi, rannicchiato nel caldo delle sue
coperte di ginestra, «sembra giorno ed ancora mastro Turi non si sente!». «Può
darsi che ancora sia presto o, chissà, che sia andato a comperare il ferro!»,
rispose la moglie. «Beh,
facciamo gli scongiuri, auguriamoci che non si sia sentito male», continuò
l’avvocato Salvi, mentre si accingeva a girarsi dall’altro lato. La
moglie, Donna Concetta, intanto si alzò per preparare il braciere. Aprì la
finestra ed ebbe una grande sorpresa: i tetti delle case, con i loro fumaioli
già fumanti, erano tutti imbiancati. «Ha
nevicato», esclamò, «e ne ha fatta molta! Vieni a vedere Peppino!». Il
mistero, per l’avvocato Salvi, quindi, apparve chiarito: mastro Turi, quella
mattina, aveva preferito restarsene a letto, imitando, sia pure per un
giorno, quei pochi signorotti del paese che se lo potevano permettere. Più
ci rifletteva, l’avvocato, e più l’ipotesi gli sembrava verosimile. Ma
in casa del povero ferraio, nel frattempo, aleggiava un fervore diverso. La
moglie Carmela, una donna alta e magra che non riusciva a star ferma neppure
per un minuto, considerando il non far niente una vera e propria afflizione,
quella mattina, pareva essersi svegliata con la luna di traverso. «Alzati
Turi, è già tardi e fuori c’è un metro di neve! Dovrai spalarne un po’,
altrimenti non si può neppure uscire: tu non puoi andare alla forgia ed io
non posso arrivare al pollaio per vedere se c’è qualche uovo fresco per i
bambini». Mastro
Turi ascoltava con apatia, evitando di rispondere, se non con qualche
mormorio evasivo. «Turi
alzati, tu non puoi startene a letto come un signorino!», ripeté la moglie,
alterando sempre di più il tono della voce. «Sei nato tondo, tu, lo vuoi
capire che non puoi morire quadro!», urlò. «E
smettila di cianciare, una buona volta», sbuffò infastidito mastro Turi, «ché
adesso, al primo chicchiriare, mi alzo!». Ma
neppure il gallo, quella mattina, col freddo che faceva fuori, si degnò di
emettere il suo solito chicchirichì. Mastro
Turi trangugiò in una sola sorsata un goccio di caffè con l’anice e se ne
restò a letto, supino, con le mani dietro la nuca e lo sguardo fisso in un
punto vago del soffitto. Era
stato un sogno, altroché, a fargli assaporare il gusto di starsene a dormire,
quella mattina. Aveva
sognato il padre, buon’anima, che gli diceva: «Turi,
è giunto il momento di cambiare vita. Fai bene attenzione a questi tre
numeri... riceverai una gran somma che ti permetterà di stare con un’anca
sopra e l’altra sotto per il resto dei tuoi giorni». E
così, con la testa ancora in subbuglio, mastro Turi continuava a
fantasticare. Lo assalivano pure frammenti di dubbi, e non ci fu verso di
farlo balzare dal letto, manco con le cannonate. In
quel momento, più d’ogni altra cosa al mondo, avrebbe desiderato continuare
quel sogno, comodamente fra due guanciali, non foss’altro che per poter
conoscere meglio suo padre, volato in cielo che lui aveva appena quindici
anni. «Chissà
cosa mi avrebbe suggerito? Chissà quale altro aiuto avrebbe potuto darmi,
assieme a quei numeri?», si domandava mastro Turi, con un senso di rammarico.
Ma
la moglie, insensibile, tosta come una capra svizzera, l’aveva svegliato di
soprassalto. «Turi,
si può sapere che t’è successo stamattina?», insistette nuovamente con tono
contrariato. «Carmela!
Carmela mia, ho fatto un sogno assai bello, stanotte!», disse con voce
flebile mastro Turi. «M’è venuto in sogno quel sant’uomo di mio padre: era
lì, alto, sorridente, con il bastoncino in mano, la barba bianca che sembrava
San Francesco di Paola, e con la sua solita voce possente mi ha detto: “Turi
è arrivato il momento di cambiarlo questo tuo vivere losco e crudele. Ho
pregato a lungo, per te, e, finalmente, i santi del Paradiso mi hanno
concesso l’opportunità di aiutarti. Giocati questi tre numeri, Turi, e il
mondo ti cambierà sotto gli occhi. Avrai tanti soldi e tutti si leveranno il
cappello quando t’incontrano per strada. Vedrai la gente come ti saluta:
buongiorno Don Turi, riverisco Don Turi... tutti s’inginocchieranno ai tuoi
piedi... persino l’avvocato Salvi dovrà abituarsi!”». «Dio
santo!» esclamò Carmela. «E perché mai la gente dovrebbe inginocchiarsi ai
tuoi piedi? Che sei diventato tu, il Salvatore?... Eppoi, l’avvocato Salvi?,
che c’entra l’avvocato Salvi? E’ tanto buono con noi, poveretto! Ti saluta da
un miglio di distanza se ti scorge per strada! E’ tanto rispettoso, sia lui
che donna Concetta!». «Sangue
di Giuda», disse mastro Turi, pensando sempre a quei numeri, «non potevi
venire a svegliarmi mezz’ora più tardi, stamattina! Sei arrivata proprio nel
più bello, proprio quando la buon’anima di mio padre stava per dettarmi quei
tre numeri da giocare! Ed ora?... Ora me ne ricordo solo due, dannazione!, il
tre e il dodici». «E
l’altro? Prova a fare mente locale, non te la prendere», cercò di rincuorarlo
la moglie, «è probabile che prima o poi ti salti in mente». «Macché!»,
sbottò mastro Turi, innervosito, nel mentre s’alzava dal letto per dirigersi
verso il trespolo1 di legno
che abbracciava giro giro il braciere, appena preparato da Carmela. Si
sedette a piedi nudi sull’orlo della rota, appartò la cenere smuovendo la
brace con la paletta, gettò una
buccia secca di arancia, e rimase lì, a pensare, per alcuni minuti. «Sangue
di Giuda», replicò, «mi ricordo solo il tre e il dodici». «Sai»,
disse Carmela, «e se passi da comare Caterina, più tardi? Lei, dicono che va
con i morti, sa interpretare bene i sogni... Ti saprà certamente dire
qualcosa». Comare
Caterina non era una magàra2, come le
circostanze potrebbero far credere. Era una donna benestante, stimata da
tutti, non solo nella ruga ma in tutto il paese; una donna lavoratrice, abile
al telaio, che peraltro aveva imparato dai suoi avi a togliere il malocchio
e, perfino, l’occhio di Chiesa3. «Va’
da comare Caterina e fatti sciommacare!4», era
solita dire la gente, in paese, quando qualcuno accusava un forte mal di
testa o si sentiva le gambe intorpidite, sbadigliando di continuo come un
affamato. Pur
senza pretendere in cambio alcun compenso, comare Caterina si prestava
volentieri alla tradizionale pratica dello sdocchiare5, accogliendo in casa propria i suoi compaesani.
Quasi nessuno, tuttavia, andava a trovarla a mani vuote: le portavano noci,
castagne, uva di malvasia, mandaranci e qualsiasi altro frutto di stagione. A
volte, finanche confezioni americane di zucchero o di caffè, le portavano. «Vai
da comare Caterina, più tardi», disse nuovamente Carmela. «E
che le porto?», domandò mastro Turi, preoccupato, con l’aria di uno che aveva
avuto chissà quale guaio. «Portale
un po’ di uova fresche. Ce ne saranno, stamattina, nel pollaio». Mastro
Turi, si alzò dalla sedia, avvertendo una momentanea sensazione di sollievo.
Fece un sospiro, quasi liberatorio, e poi andò a lavarsi. Si vestì in quattro
e quattr’otto, prese una pala e raggiunse lo spiazzo di terra antistante che
lo separava dalla forgia e da un orticello familiare. La
neve era davvero tanta. Ne era caduta più di sessanta centimetri, e ne
continuava a scendere dell’altra. Una nevicata del genere, non se la ricordava
da tempo e per un attimo ebbe l’impressione di essere tornato bambino. Da
ragazzo non vedeva l’ora che nevicasse. Faceva salti di gioia quando
cominciava a vedere i primi fiocchi cadere dal cielo, ed usciva di casa,
salterellando come un capriolo, col capo scoperto, tanto da indurre la
mamma, sempre prodiga di apprensioni, a corrergli dietro per acchiapparlo,
paurosa che gli venisse un malanno. Mastro Turi ricordò subito quei momenti
di gaia spensieratezza. Molti ricordi da fanciullo gli si affollarono nella
mente, al punto di avvertire, sia pure per qualche istante, un forte
desiderio di tuffarsi nella neve come un pesce, di giochicchiare o
sgambettare con ilarità briosa, come faceva da piccolo col padre che, ad ogni
nevicata, lo aiutava a costruire un enorme pupazzo di neve, proprio lì, su
quello stesso suolo pianeggiante. «Che
strana coincidenza», pensò mastro Turi, «stanotte ho sognato mio padre ed
oggi ha nevicato proprio come ai tempi in cui campava lui, ridandomi la gioia
e l’innocenza di un tempo!». Quella
neve gli pareva di buon augurio. Anzi, la considerava come un regalo fattogli
dal padre, al punto che già gli dispiaceva persino di spazzarla e la trattava
con delicatezza. Poi, sollevò lo sguardo al cielo, aspirando profondamente
l’aria del mattino, ed incominciò a spalare, ammucchiandola ai bordi, fino a
raggiungere il pollaio di fronte. C’erano cinque uova. Le prese e le portò
dentro casa; ne mise due da parte per i bambini e le altre tre, avvolte in un
tovagliolo, le lasciò sul tavolo, per portarle a comare Caterina. Tornò
fuori, ricominciò a spalare altra neve, con in testa di nuovo quel sogno e
quei due numeri. «E
se ne gioco solo due?», si domandò mastro Turi. «Non otterrò magari una
grossa vincita, non sarò ricco e straricco, ma qualcosa, di sicuro,
prenderò! Ma no, che dico?, se i numeri erano tre, non servirà a nulla
giocarne due. E come se costruissi un tripode a due piedi. Che senso ha? Se
non ha il terzo a che serve!». In
quel lasso di tempo, si trovò a
passare, per la strada, Vittorio Rampa, con un impermeabile giallo e un paio
di stivaloni che lo coprivano fin sopra il ginocchio. Mastro
Vittorio, un uomo basso e tarchiato che fino al giorno in cui prese il posto
di cantoniere aveva patito la fame, era un tipo allegro ed estroso, assiduo
frequentatore di bettola ed abile giocatore di tressette. Amava spesso
pavoneggiarsi e si divertiva a sfottere le persone che abitualmente
frequentava. Ma di mastro Turi, che non era il tipo da farsi posare la mosca sul
naso, si guardava bene. Con molti altri paesani, invece, mastro Vittorio era
solito vantarsi, di percepire tanti di quei bigliettoni, ogni mese, da poter
cospargere le strade del paese. «Ci
vuole la carriola, quando vado alla Posta per pagarmi!», aggiungeva poi con
saccenteria. In
realtà, mastro Vittorio, che da qualche anno s’era collocato a riposo,
percepiva una pensione che ad uno come mastro Turi, ad esempio, non sarebbe
bastata neppure per comprarsi i toscanelli6 che
riusciva a fumare in un mese. Ma per Vittorio, soprannominato Rampasentieri
(un po’ per via del suo cognome e un po’ per il mestiere di cantoniere che
aveva esercitato), era già tanta. A lui bastava un piatto di cicerchie7 a pranzo, una manciata di giuggiolena8 la sera, una bottiglia di vino di cartella9, ed era felice. «Ben
svegliato, mastro Turi, buongiorno!, quanta neve stamattina, eh!», gli gridò
dalla strada Vittorio Rampa. «Buongiorno,
buongiorno, compare Vitto’, voi sì che ve ne fottete! Avete ormai tirato la barca
all’asciutto!». «Eh
sì, ne ho fatta abbastanza, io, di fatica, caro mastro Turi!... che ancora ho
la schiena che scricchiola come una sedia vecchia! Ora è pure giusto, porco
mondo!, che mi goda la pensione. Per chi devo lavorare più io?, i figli ce l’ho
tutti all’estero. Per me e per mia moglie quello che ci passa il governo
basta ed avanza», rispose mastro Vittorio, mentre a passo lento sulla neve,
già di primo mattino, si avviava verso la bettola del paese. Uscì
la moglie di mastro Turi. «Con
chi gridavi, Turi?... Con chi ce l’avevi?». «No,
niente! passava da qui quel balordo di mastro Vittorio, ha salutato ed io gli
ho risposto... Vedi com’è la gente?, se ti fai rispettare ti rispetta! Se
invece ti fai prendere la mano, ti saluto piede di fico! Una volta,
quell’ubriacone, quando ancora faceva il cantoniere, venne alla forgia: Compare
mastro Turi qua! e compare mastro Turi là!, mi chiese di costruirgli una
falciola. Impiegai tre giorni per fargliela. A lavoro ultimato avrei dovuto
pagarmela di santa ragione, ma poi mi dispiacque, mi fece quasi compassione,
e gli chiesi di pagarmi solo il ferro che avevo comperato, di darmi cioè un
migliaio di lire. Le parvero troppe, a quello straccione. Non voleva neppure
pagarmi. Poi, addirittura, a me, a mastro Turi!, si permise di dire: Sapete,
non per le mille lire, ma per una questione di principio... perché io, con
quanto prendo al mese, posso cucirvi addosso un vestito di banconote...
Dio mi perdoni, ma meno male che se ne andò via di corsa, sennò quella mattina
l’avrei strozzato. Più tardi, si trovò a passare la moglie, la chiamai e le
dissi: qua, fatemi una cortesia, portate questa falce a vostro marito e
ditegli di non farsene un problema per i soldi, che può passare a pagarmela
con comodo... Non passò neppure mezz’ora, e venne la moglie stessa a portarmi
quelle mille lire e a dirmi che, suo marito, si faceva le scuse, in quanto
mai e poi mai avrebbe inteso essere offensivo. Da allora, ogni volta che
passa, saluta (buongiorno! buonasera!), ma fuori dal piatto. Non ne ho mai
avuti, io, di questi amici. Ché si fosse ricordato di quante volte la mia
famiglia sfamò la sua, non si sarebbe permesso di venirmi a dire, nemmeno per
scherzo, che con i soldi che prende in un mese potrebbe cucirmi un vestito
addosso... Mi ricordo, come se la vedessi ora, la madre quando veniva a casa
nostra per chiederci un tozzo di pane per i figli. E noi, che grazie a Dio
non ci mancava nulla, le davamo sempre qualcosa. “In suffragio dei morti”,
diceva sempre mia madre e le riempiva il faddàle10 di quel che capitava: pane di casa, fagioli, ceci,
lenticchie, fichi secchi, noci. Ed ora, che si è visto quattro soldi di
pensione, si crede chissachì... Ha perso la testa, ma se crede di poter
alzare la cresta con tutti, si sbaglia!». La
moglie Carmela era già rientrata in casa, ma mastro Turi, spalando,
continuava a parlare da solo, a voce alta, come se stesse discutendo con
qualcun altro. E spalava, parlava e spalava. Si fecero le dieci, rientrò in
casa, si diede una ripulita, prese le uova che aveva deposto sul tavolo e
s’incamminò per andare a trovare comare Caterina. La
vide sulla scala esterna, con la sua immancabile tovaglietta11 nera sulla testa. Stava anche lei, con una paletta
in mano, togliendo un po’ di neve dal pianerottolo. «Buongiorno
a voi, comare Caterina!», salutò mastro Turi. «Buongiorno
mastro Turi! Quale buon vento, stamattina, con la neve, vi porta da queste
parti?». «Sono
venuto a trovare voi, comare Caterina». «Salite!
Fate attenzione a non scivolare. Avete visto quanta neve ci ha mandato il
Padreterno?...». «Eh
già, proprio a questo pensavo stamattina: una nevicata così non la vedevo dai
tempi in cui ero bambino!», rispose mastro Turi, salendo. «Accomodatevi.
Voi qui siete sempre il benvenuto! Ce la siamo sempre passata bene con la
vostra famiglia», disse comare Caterina, facendogli strada nella sua stanza,
al cui centro troneggiava un grande braciere in rame. Mastro
Turi ringraziò, per l’accoglienza ricevuta, e poi disse: «Vi
ho portato tre uova fresche, comare Caterina. Non sapevo proprio cosa
portarvi?». «Che
dovevate fare! Vi volete sempre incomodare. Non potevate lasciargliele a
quelle due creature che avete a casa!». «Ce
n’erano solo cinque, stamattina, nel pollaio, e due le ho lasciate per i
bambini... Sapete, comare Caterina, sono venuto da voi per raccontarvi un
sogno... Ho sognato mio padre, stanotte, che non sembrava tanto contento
della sorte, a me sempre avversa. Voleva fare qualcosa per aiutarmi... Mi
stava dettando tre numeri da giocare, ma poi Carmela, proprio nel più bello,
è venuta a svegliarmi... Ed ora, di quei numeri, ricordo solo il tre e il
dodici. Voi non potreste darmi una mano?, se vi capita di venirvi in
sogno...». «Quella
buon’anima di vostro padre, eh! era un gran lavoratore... Che Dio l’abbia
sempre in gloria!, era molto attaccato a voi... voleva che cresceste sano,
robusto ed educato. Turi, Turi mio, diceva sempre, non voglio che da grande
soffra come ho sofferto io!... Fin che posso, io che ho sempre lavorato alla
cava, andrò anche a zappare il campo di Chimirri12, pur di aiutarlo!». A
mastro Turi, nel sentire quei discorsi, gli s’inumidirono gli occhi dalla
commozione. Stava per venirgli un groppo alla gola che, a momenti,
gl’impediva persino di parlare. «Purtroppo,
il destino ha voluto così!», continuò a dire comare Caterina, «se n’è andato
che voi eravate troppo piccolo... Ma dite, e quel vostro zio che sta in
America, come sta? Non scrive?, non dà più segni di vita?». «Chi,
zio Turi? No, non si è fatto più sentire dopo quella questione avuta con mio
padre, a causa del nonno. Non l’ho mai conosciuto, io, zio Turi... So solo
che porto questo nome in suo onore, ma non so neppure com’è fatto!». «Come,
a causa del nonno?», chiese comare Caterina, mentre gli porgeva una tazza di
tè con una fetta di limone, appena preparato sul braciere. «Ma
come, non lo sapete?... Quando partì per Toronto, zio Turi, avrebbe voluto
portarsi anche il nonno. Per poterlo assistere meglio, diceva. Ma mio padre
non fu d’accordo... E così, una sera ebbe con lui un’accesa discussione... lo
minacciò persino con un vecchio revolver: “Il tata13, tu, non lo porti da nessuna parte, hai capito!”,
urlava come un ossesso, “Sennò ti sparo in fronte e me ne vado in galera!
Com’è vero che mi chiamo Peppe Codispoti!”. Ma non lo diceva col cuore, mio
padre... Non riusciva ad ammazzare manco una mosca e cercava di apparire un
duro solo per mettergli paura. Cosicché, mio zio, per evitare questioni in
famiglia, partì da solo. Era su tutte le furie e se n’andò gridando: “Questi
infami!... Credono che io voglia portare mio padre, a Toronto, per mangiargli
la misàta14! Questi infami!...”. Tornò,
poi, alla morte di mio nonno, stette una settimana, ma con mio padre non si
degnarono neppure d’uno sguardo. Me la raccontò varie volte, mia madre,
questa storia... Diceva ch’ero ancora in fasce quando successe il fatto...
Come avrei potuto conoscerlo, avvenne quarant’anni fa, proprio quanti ne ho
io, oggi! A quest’ora, mio zio, è più che ottantenne... Comunque, comare
Caterina, non è di lui che son venuto a parlarvi, ma della buon’anima di mio
padre, che mi lasciò che avevo quindici anni e che ora m’è venuto in sogno,
facendomi arroventare il cervello con quei numeri...». «E
ve li ricordate, ora, quei numeri?», chiese comare Caterina. «Eppoi, dove
andreste a giocarveli? Nei paesi qua vicini, non credo!, dovreste come minimo
arrivare a Catanzaro...». «Ma
anche in capo al mondo ci andrei!, se solo potessi cambiare questa vita...
Non tanto per me, quanto per l’avvenire di Giuseppe e Mariuccia. Quel che
mio padre non ha potuto dare a me, vorrei almeno poterlo dare io a quelle due
creature... Ma il lavoro, lo sapete, purtroppo è quello che è!». «Beh,
vorrei tanto potervi aiutare» disse comare Caterina «ma non dipende solo da
me. Aspettiamo qualche settimana e vediamo s’è possibile, in sogno, parlare
con vostro padre». «Mi
raccomando, comare Caterina! Fatemelo questo favore, non dimenticatevi». «State
tranquillo, mastro Turi. Non disperate!». Sicché,
mastro Turi, contento, si avviò verso casa. Passarono
tre giorni e le sue implorazioni non caddero nel vuoto. Quella notte, la
santa donna ebbe modo d’incontrare, in sogno, compare Peppe. Gli parlò di suo
figlio, gli raccontò delle sue preoccupazioni, e lui, annuendo, rispose:
“Sono già al corrente di tutto, comare Caterina. Quel mio Turi, non ha capito
proprio nulla di quanto ho avuto modo di dirgli, l’altra notte, in sogno.
Spiegateglielo voi, per benino, che gli ho dato quei numeri non per andarseli
a giocare. E’ stata solo la sua fantasia, al risveglio, a dettargli quelle
parole che io non ho mai osato pronunciare. Non gli ho mai detto, ad
esempio, che la gente dovrà poi inchinarsi ai suoi piedi. Che tutti gli
dovranno portare rispetto, sì, è più che giusto, ma non che lo debbano
riverire chiamandolo don Turi! Voglio che mio figlio continui ad essere se
stesso, che mantenga sempre l’umiltà dei grandi. Solo sapendolo ricco anche
di animo e di cuore, continuerò ad essere felice. Sennò sarà del tutto
inutile continuare a disprezzare la superbia di molti poveri-arricchiti che,
in terra, si credono dei Padreterni! La vita non può continuare ad essere
dominata dall’egoismo, dall’indifferenza e dai più bassi istinti! Ditegliele
queste cose, perché sono molto importanti per un uomo. E ditegli pure che
comprendo quel suo farneticare. Lo so benissimo che la vita, finora, gli ha
sempre procurato amarezze e frustrazioni e che, per questo, ha un forte
desiderio di riscatto. Ma ditegli che non sono i fronzoli e le etichette, che
molti si appiccicano davanti al nome, a fare di un uomo un grand’uomo.
Ditegli, ancora, che non l’ho abbandonato e che il terzo numero è il
settanta”, aggiunse compare Peppe. E poi scomparve. Comare
Caterina, al mattino, quando si svegliò, apprezzò molto quella lezione di
vita e si ripassò nella mente, lettera per lettera, il saggio discorso del
padre di mastro Turi. Poi, di buon’ora, andò a riferirglielo per filo e per
segno. La forgia era già aperta e mastro Turi, come al solito, continuava a
battere il ferro rovente sull’incudine. Quando vide comare Caterina, sulla
porta, rimise nella fucina a mantice il ferro che stava modellando e, con il
cuore pieno di gioia, la invitò ad entrare. «Buongiorno,
comare Caterina, siete riuscita ad avere qualche buona notizia?», domandò. «Sì,
mastro Turi, finalmente vostro padre m’è venuto in sogno», rispose comare
Caterina. Si
sedette e raccontò tutto a mastro Turi che, con gli occhi sgranati, stava lì
ad ascoltare in religioso silenzio. Il povero ferraio rimase di sasso; quelle
parole, a momenti, non segnarono l’apice del suo crollo morale. Poi,
facendosi coraggio, trovò la forza di cambiar discorso, chiedendo: «E
il numero? Ve l’ha dato, poi, il terzo numero?». «Sì»,
disse comare Caterina, preoccupata più a raccontargli per primo quella specie
di paternale che altro, «mi ha dato anche il terzo numero, è il 70, ma ha
pure detto che non serviranno certo per andarveli a giocare!». «Tre,
dodici, Settanta!», esclamò mastro Turi, più tetro che mai, con
l’atteggiamento di chi celava un’ansia tormentosa. «E cosa mai dovrei fare,
io, con questi numeri, se non posso neppure andarmeli a giocare! Non ve l’ha
detto, questo?...». «No,
mi ha detto molto, caro mastro Turi, ma questo non me l’ha proprio detto». Cosicché,
mastro Turi, confuso da quella ramanzina fattagli dal padre, e da quei numeri
su cui non sapeva darsi una ragione, abbandonò, svogliato, il lavoro che
aveva appena iniziato, chiuse la forgia ed accompagnò comare Caterina lungo
la via del ritorno. Cercava di appurare qualcos’altro, di trovare una logica
spiegazione a tutto ciò, ma la donna, suo malgrado, non seppe aggiungere
nulla. Poi mastro Turi la ringraziò, salutandola con affetto, e rincasò. Era
sconvolto e l’angoscia gli stravolgeva i lineamenti. «Turi,
che t’è successo?», gli chiese la moglie, vedendolo rientrare a quell’ora
piuttosto insolita. Corse
subito in cucina, bevve un bicchiere d’acqua, quasi per placare la sua
agitazione, e poi s’affrettò a raccontare a Carmela ciò che gli aveva appena
detto comare Caterina. «La
lezione di mio padre posso pure capirla!», continuò a tormentarsi mastro
Turi. «Ma quei numeri? Cosa mai potranno significare quei tre numeri
benedetti? Non credo che portino male... Capisci qualcosa, tu?». «Capisco
meno di te, Turi, ma qualcosa sicuramente vorranno significare!... Non a caso
è stata la buon’anima di tuo padre a dettarteli in sogno! Eppoi, hai visto
quante cose nuove ha rivelato a comare Caterina... Te lo dicevo, io, che va con
i morti!». Mastro
Turi, impressionato e non sapendo a cosa credere, tornò in cucina a bere un
altro bicchiere d’acqua e, con la scusa di sentirsi poco bene, s’infilò nel
letto, rifiutando persino il pasto di mezzogiorno. L’indomani,
smaltito ogni turbamento, poté riprendere il lavoro di sempre. Era il 28
novembre e correva l’anno 1970. In paese, con anticipo, erano già arrivati i
fierari15 per la festa del patrono San Nicola, e già si
respirava aria di Natale. Non
passava giorno, ormai, senza che mastro Turi pensasse ai messaggi accorati
trasmessigli dal padre, attraverso comare Caterina. Era sempre stato gentile
con tutti, in paese, ma d’allora la sua cortesia era di gran lunga
aumentata. Persino i rapporti con Vittorio Rampa, il cantoniere, erano migliorati.
Ormai aveva imparato ad essere tollerante con tutti. «Salutiamo,
don Turi!», gli disse, col suo solito modo di fare, il Rampa, incontrandolo
per strada. «Ma
quale don Turi!», rispose lui, serenamente. «Il “don” ce l’hanno solo le campane,
i preti e i mafiosi!, ed io non sono tra questi tre... Sono solo un
umilissimo cittadino, né più né meno come voi, mastro Vitto’». Era
così notevole il cambiamento in mastro Turi che finanche un rozzo come il
Rampa lo notò, tanto che la sera (cenando) non si trattenne di raccontarlo
alla propria moglie: «Tota,
ma lo sai che mastro Turi, da qualche tempo, lo vedo diverso! E’ più cordiale
anche con me, benché non potesse più digerirmi dopo quell’affronto che gli
feci, quella volta, dentro la sua forgia, quando andai a commissionargli
quella falciola». «A
me non è mai sembrato un uomo scortese», rispose la moglie. «Sarà stata una
tua impressione, per via di quel litigio... ed ora, visto ch’è passato un po’
di tempo, comincia ad apparirti più cordiale». «Beh,
è probabile che sia così!», si convinse Vittorio Rampa che, nei giorni
successivi, passando davanti alla sua forgia, continuava a salutarlo con
sempre maggiore riguardo. Un
giorno, era il 30 di novembre, a mastro Turi giunse un telegramma dal lontano
Canadà. «Chi
sarà mai?», pensò mentre firmava la ricevuta al postino che glielo
consegnava. Lo aprì ed ebbe la notizia che a Toronto quel suo zio Samy
(Salvatore) Codispoti, che portava il suo stesso nome, era deceduto all’età
di ottantadue anni. Era
emigrato prima della guerra, da semplice panettiere, qual era, e oltreoceano
aveva fatto fortuna, arrivando a possedere una catena di ristori, in tutta
Toronto, ed una fabbrica di paste alimentari. Era, insomma, divenuto un bosso16, come lo chiamavano i suoi sessanta dipendenti,
tutti connazionali. «Ed
ora, che diavolo vorranno, moglie e figli d’uno zio che neppure ho
conosciuto!», disse mastro Turi a sua moglie. «Cosa
vorranno?, sei l’unico nipote, qua in Italia, e hanno sentito il dovere di
avvertirti!». «E
cosa vuoi che me ne freghi di quel bastardo!», urlò mastro Turi, con una
smorfia di disgusto. «In quarant’anni non ha mai sentito il dovere di farsi
vivo ed ora si presenta qui da morto?! Ma guarda un po’, tutti a me devono
capitare!». «No,
Turi, non dire così! D’altronde, sempre sangue del tuo sangue è! Che figura
ci facciamo con i paesani... E’ morto uno zio che, per giunta, porta il tuo
stesso nome e cognome e non gli facciamo dire neppure una messa in suo
suffragio? No, Turi, ragiona, dobbiamo tenergli il lutto... Dopotutto era tuo
zio... L’unico vero che avevi!». «E
vabbè!», disse mastro Turi, lasciandosi prendere dalla commozione, «vado ad
avvertire don Luigi per la messa e dico pure al sagrestano di suonare il
mortorio». Il
rintocco della campana fu tempestivo. Quel martellare lento del battaglio,
quella volta, non fu certo gradevole come quello che, solitamente, usciva
dalla forgia di mastro Turi. E
la gente, si chiedeva: «Chi
è morto?». «Un
paesano in America!», rispondeva qualche vecchietta, per la strada. E così
mastro Turi, volente o nolente, tenne il lutto, a casa, per lo zio canadese e
la gente che andò per fargli visita fu numerosa. Alcuni
giorni dopo, il 3 dicembre, sempre dal Canadà, a quell’infausto telegramma,
che mastro Turi ancora teneva sul comodino, seguì una lettera. La ritirò
Carmela, poiché mastro Turi era andato a far legna in un podere vicino. L’aprì
accuratamente. Era la moglie del defunto
zio Samy, che, con un perfetto italiano, comunicava a mastro Turi un
lascito, per testamento, di una somma, a quei tempi, davvero astronomica. «Lo
zio Samy», spiegava quella lettera, «benché coniugato non ha mai avuto figli
ed ha lasciato ogni bene immobile, compresa l’attività commerciale, alla
moglie Mary e un contante in dollari per un valore di 200 milioni di lire al
suo unico nipote Salvatore (Turi) Codispoti, che lo stesso potrà
legittimamente incassare dopo aver comunicato nome e località della banca
italiana a lui più vicina». Quando
tornò Turi e apprese la notizia dalla moglie, per poco non svenne. A
casa sua arrivò anche comare Caterina che, tra le braccia del povero ferraio
e di Carmela, venne subito informata del significato effettivo di quei tre
numeri: 3-12-70. Erano
il giorno, il mese e l’anno, in cui la vita, per mastro Turi e famiglia, si
sarebbe finalmente decisa di sorridere. © Copyright 2005-2021 by Vincenzo Pitaro in «Antologia di Scritti
Calabresi», 1995 NOTE 1 Trespolo. Treppiede, che
qui sta per la ruota di legno che reggeva il braciere, sulla quale, stando seduti,
si potevano poggiare i piedi. 2 Magàra. Donna che
esercita la magia. 3 Occhio di Chiesa.
Secondo un’antica cultura contadina, con tale definizione s’intendeva che la
trasmissione del malocchio era avvenuta in chiesa (durante la celebrazione di
una messa o nel corso di altre particolari ricorrenze, come matrimonio,
battesimo, cresima) e quindi l’influsso malefico, che incideva sulla
psicologia della gente, era ancora più forte. 4 Sciommacare.
Suffumicare. Antico rito, ascrivibile alla società contadina, praticato per
togliere il malocchio o l’occhio di Chiesa alle persone che,
sottoposte alla pratica dello sdocchiare, non avvertivano a distanza
di giorni alcun segno di miglioramento. La donna preposta a questo rito
approntava debitamente una paletta con delle braci, su cui faceva ardere
pezzetti di palma e di foglie d’ulivo benedetti, unitamente a granelli
d’incenso anch’esso benedetto, e girando intorno al «paziente» per tre
volte, ripeteva, sempre mentalmente perché non si sentisse, alcune formule. 5 Sdocchiare. Pratica
dedicata per togliere il malocchio. 6 Toscanelli. Sigari
d’origine toscana. 7 Cicerchie. Dal latino cicercula,
diminutivo di cicer, cece. Frutto di una pianta erbacea rampicante, simile al
pisello, che i contadini più poveri usavano come minestra. 8 Giuggiolena. Semi
tostati di sesamo. 9 Vino di cartella. Vino
che di uva non aveva proprio niente, in quanto preparato con alcune misture
mescolate nell’acqua. Un tempo, specialmente nel meridione, il «vino di
cartella» era la bevanda dei poveri. 10 Faddàle. Grembiale.
Lembo rialzato del grembiale. 11 Tovaglietta. Copricapo
femminile in uso nella società contadina di una volta. Specie di mantiglia
che, probabilmente, trae origine dal costume femminile spagnolo. 12 Chimirri. Ricco proprietario
terriero, peraltro già ministro dell’agricoltura, agli inizi del ‘900. 13 Tata. Termine di origine
meridionale che qui sta per padre. 14 Misàta. Pensione,
stipendio. 15 Fierari. Venditori
ambulanti nelle fiere o nei mercati all’aperto. 16 Bosso. Nel dialetto
calabrese il bosso è il principale, cioè il capo di una ditta o di
un’azienda. |
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