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Quei proverbi calabresi d’un tempo,

sinonimo di saggezza popolare

 

di Vincenzo Pitaro

 

«L’ANTICU ‘ON SI SBAGGHJÀU!», si sente dire ancora oggi nei nostri paesi. E già da qui si può intuire tutto: il popolo antico, bontà sua!, era un popolo di saggi. Una saggezza popolare che trovava corpo nella tradizione orale, in quella che oggi chiameremmo «letteratura sapientale», costituita da proverbi dialettali e modi di dire.

Considerati la quintessenza del sapere, i proverbi riassumevano patrimoni di esperienze in quanto erano frutto di vita vissuta, di abitudini, idee, credenze, ecc.

Un’età d’oro che pareva non avesse fine. In gran voga già dai tempi di Omero e di Esiodo, di Orazio e Virgilio, i proverbi risultano diffusissimi anche nel Medioevo e nel Rinascimento.

In Calabria, più o meno fino agli anni Settanta, era ancora possibile udirli, tutti i giorni, nei discorsi che intraprendevano le persone di una certa età. Oggi, che il mondo è mutato e continua a cambiare velocità, purtroppo sembrano pressoché scomparsi. Quei pochi che paiono resistere ai tempi nuovi, sono patrimonio degli anziani e rappresentano a tutt’oggi delle autentiche miniere o giacimenti culturali in cui volentieri gli antropologi indagano per cercare le origini di un popolo.

Quasi sempre conciso e breve, il proverbio (dal latino «verbum»: parola) aveva molte forme metriche, dal settenario all’endecasillabo, e si differenziava per la sua tipologia. C’erano i proverbi profetici («’U veru amicu si vida a lu bisognu»), quelli antitetici (data la forma che opponeva due parti della frase, come ad esempio: «Cu sapa ava centu occhj, cu ‘on sapa esta cecu»), quelli metereologici («Pe’ tuttu maju non mutara saju»), i metaforici (con doppio significato: «’A gatta prescialora fhàcia i figghji orbi»).

C’erano poi i proverbi cànone (tutti nella sfera della morale e del diritto: «Cu fha pe’ idhu fha», gli alliterativi («Spusa, spisa»), i ritmici («Paga caru e seda ‘mparu»), i blasonati, gli immaginari e via dicendo.

Grazie a un nostro accurato lavoro di ricerca su questo genere letterario, portato a compimento dopo anni e condotto con pazienza quasi certosina, siamo fortunatamente riusciti a recuperarne parecchi.

Per una questione di assonanza, se non proprio di metrica, alcuni ovviamente meriterebbero qualche piccolo ritocco, proprio come farebbe oggi un pittore sugli affreschi d’epoca, che ravviva i colori lasciando intatta l’immagine e la sua freschezza. Tuttavia, abbiamo deciso di conservarli così come ci sono stati tramandati, perché forse è in questo modo che i nostri emigrati, specie quelli più in avanti con gli anni, amano ricordarli.

Eccone, comunque, una piccola carrellata, seguita dalla traduzione in italiano e da qualche breve commento.

Ntra jennàru, vinu bbonu e fhocularu (In gennaio, vino buono e caminetto).

Frevaru curtu e amaru (Febbraio è corto ed amaro. «Amaro è colui che mi ha attribuito questo appellativo», risponderebbe Febbraio secondo l’immaginazione popolare, «in quanto sono proprio io che inizio alla fioritura tutti gli altri mesi che verranno»).

Cu a marzu ‘on puta ‘a vigna, perda tempu si’ vindigna. (Chi nel mese di marzo non si adopera nel lavoro di potatura della propria vigna, rischia poi, in autunno, di non avere uva abbastanza per vendemmiare).

Non vala ‘nu carru e ‘nu carrili quantu n’acqua ‘e maju e dui d’aprili (Non vale un carro e un altro più piccolo messi assieme quanto vale una pioggia nel mese di maggio e due precedenti piovute in aprile).

A giugnu non mi movu ‘e duva sugnu (Nel mese di giugno non mi muovo da dove sto). Sono tutti belli i mesi in Calabria - come peraltro ci ricorda Leonida Répaci -, ma in giugno sembra esserci qualcosa di straordinario, non si sa se un frutto o cos’altro, che, secondo il proverbio, indurrebbe il calabrese a non partire e a godersi ciò che offre questo mese.

‘On vitta mai ‘ntra lugliu nivicara e supa ‘u mara ‘mu quagghja la nivi (Non ho mai visto nevicare nel mese di luglio e neppure fare un piccolo strato di neve sopra il mare).

Agustu è capu ‘e vernu (Agosto è il principio dell’inverno).

Settembra caddu e asciuttu, maturara fha ogni fruttu (un mese di settembre ben caldo e asciutto, fa maturare ogni frutto).

Ottobra cocia l’ovu (In ottobre il sole può arrivare a cuocere finanche l’uovo). È una contraddizione atmosferica che sottolinea come in agosto, a volte, può fare freddo e in ottobre, invece, caldo.

Si a novembra ‘on hai aratu, tuttu l’annu è malandatu (Se nel mese di novembre non hai lavorato la terra, l’anno successivo renderà sicuramente poco).

Ed ancora: «Quandu arriva ‘a Candilora chjanta pipi e pumadora».

In concomitanza con la festa della Candelora (2 febbraio) il proverbio invita a seminare o piantare peperoni e pomodori.

Ce n’è uno abbastanza bello, però, anche sui Santi. Sant’Andria porta la nova ca ‘u quattru è de Varvàra, ‘u sia è de Nicola, l’ottu è de Maria, ‘u tricidi ‘e Lucia e ‘u vinticincu dô Veru Missia. Sant’Andrea apostolo, fratello di San Pietro, che la Chiesa ricorda il 30 di novembre, è considerato, nella civiltà contadina calabrese, colui che annuncia ufficialmente l’arrivo delle festività in dicembre: Sant’Andrea porta la notizia che il quattro è di Santa Barbara, il sei è di San Nicola, l’otto è dell’Immacolata Concezione, il tredici di Santa Lucia e il venticinque del Vero Messia.

Fin qui, dunque, i proverbi. Pochissimi, a dire il vero, per ragioni di spazio.

Da una nonnina calabrese, fra l’altro, abbiamo sentito declamare, non molto tempo addietro, dei versetti antichi, che ci piace riportare perché denotano in ogni caso la fierezza dell’essere calabrese.

Su’ Calabrisi e Calabrisi sugnu, su’ canusciutu pe’ tuttu lu regnu, tandu nemicu miu, tandu m’arrendu, quandu la testa mia sàgghja a la ‘ntinna (Sono Calabrese e Calabrese resto, sono conosciuto per tutto il regno, perciò, nemico mio, mi arrendo solo quando la mia testa finisce appesa ad una antenna, ad un tronco d’albero).

Meritano infine la dovuta attenzione anche i numerosissimi modi di dire popolari. «’U vecchju ‘n casa!», ad esempio, che significa «Il vecchio in casa». Si riferisce, particolarmente alla persona giovanissima; al ragazzo che, nel parlare, spesso fa uso di parole sagge, attraverso le quali si denota che ha un nonno dentro casa, prodigo di insegnamenti.

E già, gli anziani. Lo dicevano all’inizio: la saggezza è il loro patrimonio. E ogni qualvolta che un anziano se ne va, è una vera biblioteca che si chiude.

 

(Vincenzo Pitaro, su «I CALABRESI NEL MONDO», Rivista della Giunta Regionale della Calabria – Novembre 2004)

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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