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Cultura
calabrese La poesia dialettale
del napitino Donato
di Vincenzo
Pitaro Terza pagina, del 17 luglio 1982 Abbiamo avuto
l’occasione di leggere il libro di David Donato, «Fambugghi» (trucioli),
presentazione dell’amico scrittore Sharo Gambino, edizione Occhiato, nonché
l’onore di conoscere di persona il poeta. Dobbiamo dire, in tutta sincerità,
di essere rimasti oltremodo affascinati nel leggere questa raccolta di poesie
dialettali e confessiamo di esserci ritrovati, con in cuore, un sentimento di
amore e di attaccamento per le cose calabresi e con una voglia mal celata di
poter visitare di persona quella
terra che ha ispirato la Musa del nostro poeta. Infatti nel dialetto di
Pizzo, sua città di elezione, essendo nato a Feroleto Antico (Catanzaro), si
estrinseca tutta la vena poetica del Donato. Questa cittadina, che è
al centro del suo interesse artistico e culturale ed a cui è legato ad un
amore filiale, spesso desiderandola sempre più progredita, più bella ed
avanzata, polemizza con coloro, e in specie con il suo «establishment», che
quei valori potrebbero realizzare e «non lo fanno». Pizzo, bella ed antica,
incantevole terrazza su un mare limpido ed incontaminato, trasporta
automaticamente, come rapito da un’arcana forza magica, la memoria del
lettore ad un’affascinante e drammatica pagina di storia, vale a dire quella
relativa alla morte di Gioacchino Murat. Chi non ricorda la
triste e leggendaria vicenda di quel cognato di Napoleone, che combattendo a
suo fianco e dopo una serie di sconfitte, riparato in Corsica, volle tentare uno
sbarco in Calabria, ma venne catturato da Borboni e fucilato in questo
centro? Il riferimento storico
che qui abbiamo fatto non giunge casualmente, né tanto meno si è voluto fare
sfoggio di erudizione storica, ma per un fine ben preciso e circostanziato.
Infatti, come scrive Sharo Gambino, nella sua prefazione, «... A distanza di
oltre un secolo e mezzo (la morte del Murat avvenne nel 1815 - ndr) ecco che
David Donato riprende l’argomento con la stessa semplicità e con una carica
di umanità eguale, se non superiore, a quella che aveva suggerito all’antico
cantore la famosa ballata dialettale...» che le gesta cantò del Murat. Cattura, cundanna e
morti di Giacchinu va collocata,
senza alcun dubbio, tra le più belle poesie del Donato, a fianco della quale prendono
posto, per poeticità nella piena accezione del termine, le poesie seguenti: A
Mariuzzu mio, Pizziceju mio nonché A gozza, le quali esaltano e
personificano quel senso di dolore, di malinconia e di rimpianto per le cose
perdute, che rappresentano l’asse portante della personalità poetica di David
Donato. In A Mariuzzu mio,
il poeta coglie livelli di elevata poesia e, leggendola, ci riesce proprio
difficile a non provare un sentimento di commozione e di sconforto, simile a
quando si perdono persone a noi molto care. E segnatamente nell’ultima
quartina, là dove vi si legge: «E dormi frati bellu, frati caru; / profumu di
sta vita vita senz’adduri: / comu na candileja t’astutàru / all’occhi nostri.
E dormi frati mio, / ca si perdisti a nui, trovasti a Dio / mu ti cunzula e
mu ti duna amuri!». In questi suoi versi, il
poeta sembra canticchiare la ninna-nanna al fratello morto, come a cercare di
volergli alleviare le fatiche del lungo viaggio dal quale non si ha più
ritorno. Immediatamente dopo questa lirica, segue, a voler azzardare una
classificazione, A gozza, in cui il Nostro, richiamandoci alla
memoria Vincenzo Ammirà con la sua «pippa di crita», si rivolge alla sua
povera «gozza», e cioè alla brocca di terracotta che ancor oggi se ne vedono,
sia pure di rado, nei nostri incantevoli paesi di Calabria, per esprimere
quella gaiezza e spensieratezza, quella semplicità che provava quando,
fanciullo, si recava alla fonte e beveva a garganella dalle labbra annerite
dalla usura, ma pur intime e familiari. E’ d’uopo, altresì,
ricordare, fra gli altri componimenti che ci hanno colpito, A giostra d’i
votazioni; il rammarico ed una specie di fraterna ed amichevole rampogna
nei confronti dei suoi concittadini che pronti e corrivi a biasimare le
iniquità, le ingiustizie, gli abusi e soprusi politici ed amministrativi,
giunta l’ora di andare a votare non esitano ancora a sbagliare, dando la loro
fiducia a quegli uomini e a quelle «listi a non finiri» che a tutto badano
tranne che al bene della loro città. Ed anche qui la chiusa è molto
sintomatica: «Chi palori, chi ribbeju / chi ndi veni ‘i sti barcuni. / Poi
ndi resta sulu ‘u peju / e nui massa di minchiuni: / comu scemi l’ascortamu /
e poi jamu m’i votamu!...» Giunti a questo punto
del nostro discorso, non crediamo di rendere maggiore omaggio che concludere
questo breve excursus, citando le belle e suggestive parole con cui
l’amico Sharo Gambino ha voluto chiudere la sua prefazione al libro. «...
David Donato», scrive Gambino, «rappresenta una lieta parentesi, un autentico
relax, in compagnia di un uomo che sa sorridere, e questo segreto non tiene
solo per se stesso ma lo distribuisce volentieri, [...] e noi tutti faremmo
bene ad approfittarne, visto che l’arte di sorridere sta pian piano
morendo!». (Vincenzo Pitaro su Gazzetta del Sud, Terza pagina, del 17 luglio 1982) |
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