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Tremila anni di storia nei vini calabresi di Vincenzo Pitaro La
Calabria, fin dall’antichità, è terra di vino per antonomasia. Non a caso i
greci la chiamavano Enotria1 che, per
l’appunto, significa terra del vino. In
epoca greca, infatti, si conoscevano nella regione addirittura oltre cento
tipi di vitigni diversi. Fra
i vini, ovviamente, spiccava il famosissimo Cirò - oggi conosciuto in
tutto il mondo e definito il più antico vino della Terra - che i greci
distribuivano come premio agli atleti vincitori delle Olimpiadi. Alla
storia della Magna Grecia è anche legato il celeberrimo Greco, un
vitigno che i greci trapiantarono su queste terre nell’ottavo secolo prima
della venuta di Cristo. Il Greco di Bianco si diffuse ben presto anche
tra i latini al punto di conquistare fama e gloria. A Roma, imperatori e
patrizi ne andavano matti; le donne erano ghiotte di Greco per le sue
virtù afrodisiache. «Sei diventata veramente gelida, Bice, e di ghiaccio:
che neanche il vin Greco iersera riuscì a scaldarti», scriveva un
patrizio pompeiano all’indomani di un banchetto degno di Trimalcione. Del
Cirò e del Greco sono
note finanche le citazioni di Virgilio e di Plinio il Vecchio che lodarono
questi vini a più riprese. Tantissime
altre annotazioni sui vini calabresi si riscontrano pure nella letteratura di
viaggio di illustri visitatori stranieri, dalla fine del Cinquecento in poi.
La maggior parte di questi letterati (giornalisti, scrittori, archeologi,
scienziati, ecc.) ci ha lasciato testimonianza dei loro viaggi in numerose ed
interessanti pubblicazioni. Nella seconda metà dell’Ottocento, ad esempio,
Joseph Victor Widmann, critico letterario e romanziere svizzero, nel volume
dedicato al suo viaggio in Calabria, intitolato Calabrien, Apulien und
Streiferein an den oberitalieschen, scrisse: «In genere in Calabria non
si può tener conto della propria dieta. I cibi vengono preparati per bene.
Però il vino! Mai durante i miei viaggi ne ho bevuto di migliore. E solo il
pensiero della poca garanzia che avevo di farlo arrivare in Svizzera mi
distolse dal comprarne un’intera botte. Era un vino rosso che mentre veniva
versato brillava di un colore brunastro e che ricordava come gusto un
eccellente Bordeaux». Persino
l’archeologo francese, François Lenormant, che nel 1882 compì diversi viaggi
di studio in regione, nella sua voluminosa opera sulla Magna Grecia trovò
modo di esaltare il vino lametino. «Sambiase, che sino alla fine del XVII
secolo non era che un villaggio dipendente da Nicastro», scrisse Lenormant,
«deve la sua fortuna al proprio vino eccellente. Un vino che merita di essere
conosciuto al di fuori di queste province e che se venisse esportato lontano
acquisterebbe una giusta reputazione fin nei nostri Paesi d’Europa». Agli
inizi del Novecento, poi, il letterato inglese Norman Douglas (che visitò la
regione nel 1907 e nel 1911) nel suo libro Vecchia Calabria, si disse fiero dei vini calabresi
«meritevoli di molte lodi». «Quasi ogni villaggio», scrisse il Douglas, «ha
il proprio tipo di vino e ogni famiglia che si rispetti ha un suo metodo
particolare per farlo». A
tutt’oggi, uno dei veri punti di forza dell’enologia calabrese è la ricchezza
di vitigni autoctoni, nati millenni or sono su queste terre. Essi
rappresentano la maggioranza in tutto il territorio regionale. I più presenti
sono: il trebbiano, lo zibibbo, la malvasia, il mantonico bianco, il greco
bianco e la guarnaccia, per i bianchi; il gaglioppo, il greco nero, il nerello
mascalese, il cappuccio, il guardavalle e il sangiovese, per i rossi. Da
queste uve nascono i migliori vini rossi della regione: corposi, ricchi di
toni fruttati, che si impongono per eleganza e capacità di invecchiare. Non
mancano, naturalmente, i bianchi profumati e fragranti, i rosati equilibrati
e brillanti, gli ottimi vini da tavola (che hanno parimenti valori e origini certe
per aspirare alla decretazione della Doc) ed i grandi vini dolci e liquorosi. Oggi
in Calabria sono a Denominazione d’Origine Controllata i vini Cirò, il
Bivongi, il Donnici, il Greco di Bianco, il Lamezia,
il Melissa, il Pollino, il Sant’Anna di Isola Capo
Rizzuto, il San Vito di Luzzi, il Savuto, lo Scavigna e
il Verbicaro. A
questi si affiancano tanti altri rinomati vini IGT (Indicazione Geografica
Tipica). Da
alcuni decenni, peraltro, sono stati messi a dimora nuovi impianti di vitigni
non tradizionali: dal Pinot al Cabernet, dallo Chardonnay allo Sauvignon, dal
Riesling Italico al Riesling Renano, dal Trainer all’Incrocio Manzoni, al
Prosecco, ecc. Queste
uve hanno trovato un habitat ideale, sia per l’ottimo clima che ne migliora
la qualità, sia per le capacità e l’abnegazione dei produttori. Un successo
che, ovviamente, ha cambiato molte cose. A cominciare dalle cantine. Oggi
nella regione, è possibile visitare autentiche «boutiques» del vino che si
avvalgono di tecnologie fra le più avanzate e di ottimi professionisti del
settore enologico. Negli ultimi tempi, peraltro, si è registrata un’ondata
di rinnovamento che ha cambiato radicalmente il modo di fare e pensare il
vino. E così alla politica del «produrre tanto e a poco prezzo» si è sostituita
quella del «produrre meno e meglio». Ed i risultati non si sono fatti
attendere. In questa Terra, benedetta da Dioniso, sono nate una serie di etichette
di prestigio che ben si onorano di affiancare quei vini calabresi più nobili
e famosi che, dal remotissimo tempo dei Greci fino ad oggi, continuano a
rallegrare la tavola del buongustaio. La
Calabria del vino, insomma, ha una storia plurimillenaria, molte tradizioni
da difendere e moltissimo ancora da offrire. Giacomo
Tachis, piemontese, uno dei padri del vino italiano di alta qualità, enologo
di fama internazionale, ne è più che convinto e vede nel Mezzogiorno
d’Italia il futuro della vitienologia internazionale. «Sulle vigne del Sud»,
dice, «splende il sole, il cielo è quasi sempre azzurro, e le uve maturano.
In contrapposizione con le brume ed i grigi mattini del Nord. Bordeaux
compreso». © Copyright
by Vincenzo Pitaro NOTA 1 Alcuni
«enoscrittori» usano (erroneamente) il termine Enotria per indicare tutta l’Italia.
I meno distratti, però, sanno che l’antica denominazione greca riguardò solo
ed esclusivamente la Calabria. Sin dall’era preellenica, la regione era
infatti abitata da più comunità, tra cui gli Enotri (coltivatori di
vite) e gli Itali, che occupavano la parte compresa tra il golfo di
Sant’Eufemia e quello di Squillace. Colà regnava il mitico Italo, re
dell’Enotria. Successivamente, gli stessi ellenici, diedero a questa regione
il nome Italia, proprio in onore al medesimo sovrano. Nel 384 a.C., peraltro, il
grande filosofo greco Aristotele così lo descrisse: «Re degli Enotri, da lui
questi presero in seguito il nome di Itali, come pure venne chiamata Italia
la regione da loro abitata, quella propaggine di coste delimitata a nord dei
golfi di Sant’Eufemia e di Squillace, così vicini tra loro solo una giornata
di cammino». Il nome «Italia» si estese, poi, all’intera Nazione. Fu quindi
la Calabria (l’antica Enotria) a dare il nome all’Italia. Scrivere che la
penisola italica, nell’antichità, si chiamasse Enotria, dunque, è del tutto fuorviante. |
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